La relazione terapeutica che istituisco con il paziente è funzionale all’autoconoscenza ed alla messa in discussione delle premesse con le quali attribuiamo senso alla nostra esperienza.
Gli aspetti emotivi, affettivi, cognitivi e relazionali sono coinvolti nel rapporto che stabilisco con l’altro che pone una richiesta d’aiuto, soprattutto con quella parte della personalità del paziente che è più razionale e più desiderosa di salute. Tale alleanza terapeutica ha come traguardo la presa di coscienza dei propri meccanismi di funzionamento mentale, reperendo, al proprio interno, la possibilità di riorganizzare verso obiettivi reali il comportamento. Perché l’alleanza possa realizzarsi è necessaria, oltrechè la richiesta d’aiuto, anche un paziente con una discreta intelligenza, con una consapevolezza del proprio disturbo ed una capacità di affrontare il dolore psichico.
Per quanto in ogni tipo di relazione (amicale, genitoriale, sentimentale…) si può sempre ravvisare una valenza trasformativa, ciò che rende possibile accertarne gli effetti è la presenza di una teoria e di una tecnica valida, che specifichi e renda ragione del cambiamento atteso.
Il sintomo che fa richiedere l’intervento psicologico clinico mi interessa solo come indice di un malessere più profondo, che riguarda proprio il senso di inadeguatezza nel risolverlo e che corrisponde ad una ferita narcisistica.
Il disturbo, la crisi, il malessere dell’interlocutore mi propongo sempre di elaborarli ed integrarli nel suo vissuto più complessivo: il “problema” corrisponde ad un messaggio che comunica, attraverso parole o azioni, in modo ambiguo, spesso implicitamente, l’angoscia ed il dolore di una situazione inaccettabile.
I comportamenti sintomatici, che ora risultano penosi e socialmente distruttivi, possono essere stati utili ad affrontare adeguatamente i problemi di una fase anteriore dell’esistenza. Sebbene ciò sia evidentemente indesiderabile, tali comportamenti perdurano bloccando il sorgere di funzioni più adeguate, anche laddove il paziente ha piena consapevolezza dell’anacronismo del suo agire.
Durante l’intervento psicologico clinico si verifica un riapprendimento che non ha carattere intellettuale -“adesso so perché ho paura!”-, bensì affettivo, attraverso l’esperienza significativa ed emozionalmente importante con l’Altro-Estraneo (lo psicologo), grazie alla quale si apprende a non aver paura.
Più di una “spiegazione”, riveste importanza decisiva l’esperienza trasformativa che si vive nel processo psicoterapeutico. Tale esperienza permette di esportare, all’esterno del setting di intervento, le conoscenze acquisite riguardo se stesso. Queste riguardano soprattutto le proprie modalita di simbolizzare affettivamente la realtà, e gli effetti sui comportamenti e sui processi decisionali. L’aumento della consapevolezza influenza positivamente la sensazione di sicurezza affettiva, di autostima e di autoefficacia.
Il punto di arrivo del percorso terapeutico trova dunque riscontro nell’autonomia sempre maggiore del paziente, che gli permetterà di attivare proprie capacità personali per affrontare eventuali future situazioni critiche.
La disponibilità ad abbandonare vecchie abitudini ed a sperimentare nuove forme d’azione permette la possibilità di orientarsi in un versante costruttivo, piuttosto che in quello abituale, sterile e distruttivo. In questo senso la cura del paziente coincide con un suo sviluppo, inteso come disposizione ad esplorare fiducioso, piuttosto che a cercare di difendersi, ancorandosi al noto.
Trattandosi di una relazione, quella tra il paziente ed lo psicologo clinico, la crescita dell’uno corrisponderà alla crescita dell’altro, attraverso l’attività creativa cui entrambi, ognuno nel proprio ruolo, contribuiscono.
La teoria che sostiene la tecnica con cui faccio psicoterapia orienta il mio intervento in due direzioni parallele. Da un lato si propone la decodifica della simbolica soggettiva del sintomo che fa richiedere l’aiuto, dall’altro il superamento degli effetti che il disagio psichico produce nel contesto di relazione in cui si manifesta.
Nei casi in cui il problema che mi viene portato riguarda situazioni in cui si presenta una scarsa individuazione ed identità del paziente o un’incapacità di separarsi dalla famiglia d’origine, l’intervento riguarderà il nucleo familiare allargato.
Soprattutto laddove la domanda viene formulata “per” qualcun’altro, in situazioni di conflittualità che coinvolgono altri componenti, intervenire sul sistema famiglia diventa maggiormente efficace rispetto all’intervento sul singolo. Ne sono un esempio i casi di adolescenti che mettono in atto comportamenti a rischio, come l’uso di sostanze stupefacenti o disturbi nel comportamento alimentare, oppure adulti che sperimentano difficoltà di vario genere nel rapporto con il partner. In queste situazioni propongo la convocazione di tutta la famiglia nel primo caso, o della coppia nel secondo.
La necessità di rivolgersi al gruppo allargato, piuttosto che al singolo malato, risiede nell’ipotesi che il sintomo non sia altro che un indicatore di qualcos’altro che non va e che necessita una ristrutturazione. Lavorando sui sistemi con cui interagisce il singolo è possibile favorire la trasformazione dell’organizzazione per renderla più funzionale, rispetto a momenti evolutivi precedenti, in cui tale organizzazione era valida. Quando la struttura del gruppo familiare si trasforma, anche le posizioni dei componenti di quel gruppo evolvono.