LAVORARE CONVIVENDO COL VIRUS PER RITORNARE AL FUTURO GENTILMENTE
I provvedimenti restrittivi adottati dal Governo, per il contrasto del contagio del Covid-19, hanno determinato un radicale cambiamento dello stile di vita quotidiano; alla popolazione di una società orientata al “fare”, al produrre, allo svilupparsi improvvisamente è stato imposto di “restare a casa”, di rimanere sterile, di fermarsi.
L’aggettivo “sociale”, che è stato utilizzato per determinare la qualità del distanziamento, è intervenuto sulla naturale predisposizione umana a vivere in comunità reciprocamente organizzate, creando un ulteriore disagio di natura relazionale, oltre a quello sanitario; sarebbe stato più opportuno specificarne l’obiettivo, con un maggiormente efficace “di sicurezza”.
La mancanza di chiarezza sui diversi livelli di rischio e sulla durata dei rimedi adottati hanno avvalorato nella popolazione sensazioni collegate alla perdita del controllo, all’insicurezza e al disorientamento le cui conseguenze per la salute mentale saranno molto importanti e avranno un picco che proseguirà ben oltre l’attuale pandemia. Uno studio di The Lancet Psychiatry ha evidenziato come l’impatto psicologico del Coronavirus sarà aggravato dalla gestione individuale dell’emozione della paura, dall’isolamento personale e dal distanziamento fisico. Ad essere interessate, sottolineano i ricercatori, saranno sia le persone che già soffrivano di problemi psichiatrici sia quelle che non hanno mai manifestato sintomi.
È fondamentale che nel contesto lavorativo si condivida un modello di prevenzione partecipato, nel quale ciascun individuo collabori alle azioni di contenimento, grazie ad un comportamento consapevole, secondo il motto:
Un recente ricerca , con un campione di 26.684 partecipanti in 51 paesi esaminato dal 17 aprile al 15 maggio 2020, ha sondato una ricca mappa delle esperienze emotive in tutto il mondo, verificando le determinanti psicologiche che hanno favorito il benessere durante il lockdown. Sono stati monitorati i fattori individuali e sociali che possono influenzare la misura in cui gli individui soffrono o sviluppano uno stato di resilienza. Tra le diverse variabili prese in considerazione sono risultate evidenti, come fattori predittori cruciali per il benessere, la connessione sociale e il senso di auto efficacia percepita da ogni individuo. In particolare la salute psichica è risultata correlata positivamente alle esperienze individuali di specifiche emozioni tra le quali determinazione, speranza, amore, calma, gratitudine e negativamente a quelle collegate a rimpianto, solitudine, insoddisfazione, tristezza, ansia. Una condizione sociale ed economica di agio (SES, socio-economic status) è associata ad una maggiore resilienza.
Oltre che curare la salute fisica è, quindi, altrettanto importante dedicare attenzione alla riduzione dello stress e al benessere psicosociale. Per un lavoratore essere supportato nel trovare un senso di efficacia, nello svolgimento delle proprie mansioni e di protezione dal contagio, favorisce una migliore capacità di adempiere ai propri ruoli professionali.
È bene aver chiaro che anche manager e responsabili dei team dovranno affrontare fattori di stress simili a quelli del loro staff e, potenzialmente, con una pressione aggiuntiva direttamente proporzionale al livello di responsabilità del loro ruolo. Per questo potrebbe essere opportuno avere un confronto con uno specialista sulle preoccupazioni e le incertezze che vengono vissute per avvalersi dell’aiuto che deriva dal condividere emozioni difficili.
L’augurio è che questa crisi possa diventare un’opportunità per ripensare al personale rapporto con le priorità, gli interessi, le passioni e non solo una fonte di preoccupazioni.
1. Il terrore del contagio. Nella gestione emotiva delle emergenze un ruolo chiave spetta alla paura, un’emozione che ha uno scopo puramente biologico, proteggere e preparare all’azione. Noi siamo i discendenti di coloro che hanno tenuto conto dei segnali manifestati nel corpo con la paura! Tra tutte le paure il terrore del contagio è quella più radicata nell’uomo, quella che ci ha permesso di sopravvivere, come non è avvenuto ad esempio nel medioevo a coloro che, non avendo avuto paura della peste, non hanno vissuto abbastanza da riprodursi.
Il fatto di non conoscere gli esiti della pandemia, in un momento storico in l’uomo credeva di poter dominare la natura, aumenta i livelli di stress, legati ai sentimenti di impotenza. La paura di un nemico invisibile e molto pericoloso attiva uno stato di tensione persistente, che può aggravare le condizioni di chi già soffre di disturbi ansiosi e depressivi e scatenare crisi di ansia e panico anche in chi non ne ha mai sofferto.
L’emozione della paura, in generale, può essere funzionale, perché si può trasformare in attivazione e maggiore precauzione, per esempio per rispettare i protocolli di igiene, come lavarsi le mani, indossare i dispositivi di protezione individuale e mantenere le distanze di sicurezza; questo stato può anche creare problemi, con effetti psicologici profondi e duraturi, soprattutto sulle fasce della popolazione più vulnerabili.
1.a -La vita senza toccarci. Uno degli effetti del distanziamento che occorrerà attenderci sarà l’ansia da contatto, che in alcuni soggetti potrà trasformarsi in una vera e propria germofobia, con evidenti importanti conseguenze nell’ambito lavorativo, di cui occorrerà esser consapevoli e attuare tutte le strategie che permetteranno di percepire il lavoro come sicuro e di tollerare il rischio del contagio, mai completamente annullabile.
Skin Hunger è l’espressione inglese per definire il desiderio di contatto tra epidermidi, un bisogno primario biologico. Toccarsi, infatti, stimola l’orbita frontale della corteccia cerebrale, determinando la secrezione degli ormoni che riducono lo stress e stabilizzando anche la pressione del sangue.
Se occhi e bocca sono le ferite attraverso cui il virus si propaga, le mani sono le armi che lo trasmettono, allo stesso tempo fragili e pericolose. C’è da lavarle con attenzione, cospargerle di soluzioni disinfettanti, igienizzare gli schermi del telefono e la tastiera del computer, su ogni cosa che viene contaminata o che potrebbe contagiare. Con la recente quarantena abbiamo acquisito delle nuove consuetudini, gesti prima automatici produrranno ora tentennamenti e imbarazzo misto a paura.
Il tatto, tra tutti i sensi, è quello più condizionato da questi primi mesi di terremoto abitudinario, la pandemia non ci fa temere di respirare o mangiare, ancora meno di guardare o udire, ma ci spaventa entrare in contatto con il virus, farlo salire sulle nostre mani e poi, con quelle mani, contaminarci.
Il pediatra e psicoanalista britannico D. Winnicott riassume principalmente nei concetti di holding e handling, ripetuti nel tempo, quelle attenzioni che favoriscono l’integrazione dell’infante e promuovono l’esperienza dei propri confini corporei fra esterno ed interno e la costruzione di un’immagine di Sé. L’epidermide è il primo veicolo di comunicazione e relazione affettiva del nostro Sè con il mondo. Il senso del tatto ha cominciato a darci informazioni, attraverso la comunicazione non verbale, molto prima che sviluppassimo altre fonti di conoscenza, come il linguaggio parlato; é il nostro mezzo di espressione più rilevante, essendo la pelle l’organo di senso più esteso dell’intero corpo.
Alla nascita siamo dotati di un grezzo sistema per distinguere la realtà, lo schema amico-nemico grazie al quale reagiamo ricercando alleanze e proteggendoci dai pericoli. È una modalità automatica, non ha bisogno di essere pensata; una sorta di manicheismo che ci spinge a distinguere, in netto contrasto, il bene dal male e che è fondamentale fintantoché non sviluppiamo, crescendo, competenze più raffinate per riconoscere le infinite sfumature esistenti tra i due opposti succitati. In situazioni di forte stress e di incertezza prolungata questi automatismi perdono attendibilità e smettono di rassicurarci, apparendoci la realtà imprevedibile.
Passata questa tempesta non sarà facile riavere contatti con le persone, si avrà paura a tornare alla normalità e ci vorrà gradualità nella ripresa dei rapporti sociali con gli altri. Sarà possibile che si sviluppino forme ossessive, l’igiene potrebbe condizionare i nostri comportamenti e il timore di poter contrarre malattie potrebbe accompagnare la nostra vita.
Considerato che il senso di Sé di ogni adulto si forma e si sviluppa continuamente nel rapporto con l’altro, sulla base della relazione con gli interlocutori significativi e sull’immagine che questi altri ci rimandano di noi, la necessità di mantenere il distanziamento di sicurezza avrà un impatto importante nel buon mantenimento delle relazioni anche nel contesto lavorativo, di cui occorrerà tener conto. Senza contatto fisico siamo corpi vulnerabili e menti diffidenti, disposizione dell’animo che non necessariamente guida verso comportamenti razionali, efficacemente protettivi, innalzando delle barriere tra le persone. Quando si è molto spaventati, infatti, automaticamente ci proteggiamo agendo dinamiche comportamentali orientate alla sospettosità. Il rischio è che restino muri e barriere, aumentando i confini da non superare, la sfiducia verso i cambiamenti e riducendo la collaborazione affettiva che caratterizza una buona squadra di lavoro.
2. Il panico, una reazione allo stress. La paura del contagio, come abbiamo visto, è una paura remota che non siamo programmati ad affrontare razionalmente, per questo può determinare una reazione di panico. Di fronte a questa reazione terrorizzata, ci sono due tipi di comportamento che vengono utilizzati automaticamente per ridurre lo stress: negare la paura e mettere in atto azioni di controllo.
Negare il pericolo è una risposta quasi del tutto inconscia, per cui non ci rendiamo neppure conto che lo stiamo attuando. Ipercontrollare il nostro ambiente è una risposta consapevole, ma ha delle sfumature irrazionali. Gli effetti di un’eccessiva preoccupazione possono essere più pericolosi di quello che in realtà ci preoccupa; quando viviamo uno stato di stress intenso passiamo dalla elaborazione delle soluzioni alla reazione automatica, che “seleziona” e distorce le informazioni, intensificando il malessere emotivo, decidendo impulsivamente e percependo una perdita del controllo.
2.a – Daini e ricci. A grandi linee esistono due tipologie di individui che reagiscono allo stress in modo da negarlo o ipercontrollarlo. I primi, potremmo definirli “daini”, cervidi poco timorosi, che spesso, fuggendo impulsivamente da un incendio, finiscono per corrervi incontro, bruciandosi. Sono i rappresentanti di coloro che sottostimano i pericoli come chi, in contrasto con le prime direttive del governo per contenere il contagio, non si è perso un aperitivo, ha partecipato allo show di Elettra Lamborghini, è fuggito in treno dalle zone rosse o ha abbracciato teorie complottistiche.
I secondi invece, i “ricci”, si appallottolano al primo rumore sospetto. Questi mammiferi dotati di aculei amplificano le paure, come quegli individui che fanno scorte oltre quanto gli sia necessario, diffidenti circa le rassicurazioni che le penne rigate o la carta igienica saranno nuovamente presenti negli scaffali dei supermercati, continuamente connessi ai notiziari e barricati in casa, magari sono stati anche delatori di coloro che uscivano, durante il lockdown totale, semplicemente per andare a fare la spesa.
Da un punto di vista del contenimento del contagio, i secondi non destano preoccupazioni, ma da quello psicologico entrambe le tipologie esprimono il loro personale modo di vivere una situazione di forte disagio. Gli individui che si comportano da “daini” possono arrivare a negare ogni timore, ad ostentare serenità, quando non euforia di fronte al pericolo. In questo modo inconsciamente si difendono, non entrando in contatto con la paura, rimuovendola, illudendosi, così, di non provarla. Si tratta del caso in cui la reazione allo stress, inconscia, determina scorciatoie mentali che non tengono conto dei dati oggettivi, in favore di una percezione della realtà in cui vengono sottovalutati i pericoli. Ne è un esempio quando tendiamo a dimenticare di lavarci le mani e astenerci dal portarle al viso, oppure quando ci sentiamo ridicoli a mettere in pratica i comportamenti di prevenzione indicati dalle autorità scientifiche. I daini generalmente tendono a vivere ogni minima variazione rispetto alla nostra normale routine con insofferenza.
I “ricci” invece sovrastimano le paure; preconizzando che sia impossibile rispettare le misure di sicurezza, possono arrivare a mollare completamente il lavoro pur di non correre il minimo rischio, oppure si spostano solo con faccia, mani e corpo coperti, anche quando non è necessario. Se abbiamo comprato 24 confezioni di gel disinfettante – per una famiglia composta da tre persone – oltre ad esserci approvvigionati in quantità esagerate, ne abbiamo privato altri individui che, senza la possibilità di proteggersi, aumenteranno la possibilità di contagiarci. Allo stesso modo se quando abbiamo sentito del diffondersi del Coronavirus siamo stati velocissimi a isolare i cinesi, anche quelli che vivevano in Italia da anni e non erano stati recentemente nella loro patria, probabilmente stiamo comportandoci da ricci. E lo abbiamo pensato quasi tutti, perché questa configurazione ha profonde radici nella nostra psiche, è una “programmazione base”, pre-razionale che, grazie alla consapevolezza, potrebbe essere sovrascritta da un software più sofisticato, ossia dalla nostra logica, dalla nostra cultura e dalla nostra capacità di esaminare il reale per quello che è.
2.b – La consapevolezza riduce le preoccupazioni
a- Tra il negarla ed il sottovalutarla possiamo prendere atto della nostra paura: essere spaventati è una reazione normale, esserne consci aiuta a non diffondere ansie.
b- È opportuno informarci e non autoterrorizzarci, facendo riferimento a fonti affidabili, sicure e senza l’angoscia di essere continuamente esposti a messaggi, magari contrastanti e preoccupanti.
c- Cooperare ci ha permesso di progredire come specie sentendoci amati, accuditi, valorizzati e persino protetti. Le condotte collaborative ci fanno sperimentare un senso di appartenenza e di benessere che arreca sostegno nei momenti di solitudine, incertezza e perdita del controllo.
d- È salutare mantenere delle routine nel sonno e nell’alimentazione, coltivare passioni, leggere un libro, ascoltare musica, vedere film, giocare con i figli, contattare gli amici.
e- Lo stress si riduce con la diminuzione del rischio, mettendo consapevolmente in atto comportamenti di prevenzione ragionevoli senza strafare. Nella vita di tutti noi ci sono attività indispensabili e altre semplicemente gradevoli. Quelle indispensabili non sono in questione, ma molte delle attività gradevoli andranno riconsiderate. La presa di coscienza della fragilità umana e della caducità della vita spronerà tutti a fissare nuove priorità, distinguendo ciò che è importante da ciò che è futile.
f- Se l’ansia diventa eccessiva è utile non vergognarsi di chiedere aiuto a degli specialisti.
3. Leadership
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose;
ciascuno un suo mondo di cose!
E come possiamo intenderci, signore,
se nelle parole ch’io dico
metto il senso e il valore delle cose
come sono dentro di me;
mentre chi le ascolta,
inevitabilmente, le assume
col senso e col valore che hanno per sé,
del mondo com’egli l’ha dentro?
“Sei personaggi in cerca d’Autore”, L. Pirandello
L’abilità che determina la buona conduzione e la crescita del gruppo di lavoro è la competenza di riconoscere, motivare e supportare tutto il team per il raggiungimento del comune obiettivo.
Anche se adulti e non più bambini tutti abbiamo necessità del sostegno, di sapere che abbiamo un alleato su cui contare per affrontare le incertezze nell’ambito professionale. Per guidare in modo efficace la sua squadra, occorre che il leader abbia la consapevolezza di supportare i propri collaboratori pensando con chiarezza, offrendo rassicurazioni e aiutandoli a restare uniti. Se non si è in grado di fare previsioni certe è comunque possibile offrire interpretazioni informate, cioè il motivo ed il senso di alcune misure al posto di altre. Una cartina di tornasole per valutare questa soft skill è costituita da come il leader tratta le persone della sua squadra, grazie a piccoli gesti che permettono di immedesimarsi gli uni negli altri per capirsi, sostenersi e alla fine elevarsi come comunità.
Le caratteristiche che contraddistinguono una buona leadership possono essere sintetizzate nella risposta positiva alle seguenti 5 domande:
- Sai assegnare ruoli e responsabilità sulla base delle caratteristiche di ciascuno?
- In caso di difficoltà i tuoi collaboratori sanno di potersi rivolgere a te, trovando un alleato?
- Ti occupi della motivazione e crescita continua della tua squadra?
- Tu e i tuoi colleghi avete tutti lo stesso obiettivo?
- Ritieni che nel tuo lavoro i risultati siano collegati a quelli dei tuoi colleghi?
3.a – ResponseAbility. Per un team leader aiutare i collaboratori a comunicare adeguatamente nelle situazioni conflittuali è una competenza indispensabile per la buona gestione delle relazioni interpersonali all’interno della squadra. Gli inevitabili conflitti che si generano tra individui interdipendenti contengono al proprio interno due componenti, il problema e il disagio, che occorre riconoscere senza confonderli, per gestirli in modo efficace e costruttivo. Con problema si intende l’oggetto della divergenza del contrasto, ad esempio le diversità di interessi, bisogni, opinioni, valori, che fanno parte del normale contesto di lavoro quotidiano. Il disagio è invece il vissuto soggettivo collegato al problema, differente per ogni individuo, in quanto legato alla sua storia personale; esso è rappresentato ad esempio dalle emozioni del rancore, il timore di perdere la faccia e il desiderio di rivalsa che possono generare sensazioni fisiche (blocco allo stomaco, costrizione al petto, nodo alla gola…) e pensieri disturbanti/ricorrenti come il rimuginio, le fantasie persecutorie o l’autosvalutazione.
Il team leader svolge una funzione fondamentale come mediatore cercando l’equilibrio e non l’eliminazione delle emozioni nel gruppo di lavoro. La sua funzione precipua consiste nel restituire alle parti in conflitto quella responsabilità che permette il riconoscimento anche dei propri errori e amplia la lettura degli eventi che sarà meno soggettiva e più disponibile ad accogliere ed integrare anche il punto di vista altrui. La condivisione genera appartenenza ed inclusione, ciò che fa un’effettiva differenza è se ciò che si prova può far sentire incluso anche chi prova qualcosa di diverso.
3.b – Similitudini con le dinamiche familiari. La relazione che si instaura tra il leader ed i collaboratori del suo gruppo ha delle caratteristiche che somigliano molto a quelle presenti nel rapporto tra genitori e figli. Così come è vero per un buon genitore, è altrettanto importante che anche un buon capo sappia ascoltare, orientare, compiere delle scelte – a volte impopolari – sia un esempio e abbia una prospettiva che tenga conto delle priorità e delle esigenze del team; sono tutti requisiti che garantiscono il buon funzionamento del gruppo di lavoro. Economicamente è funzionale essere stati tutti dei figli o, per alcuni, di essere genitori, in modo da poter “maneggiare” quelle esperienze vissute. In alcuni casi episodi negativi ad esempio autoritari, rigidi o punitivi, sperimentati nell’infanzia, possono essere trasferiti anche nelle relazioni lavorative, nel presente, per la similitudine che presentano nella dimensione del comando/dipendenza in rapporto ad altri. Ciò significa che il modo in cui si è vissuto il rapporto di obbedienza, ovvero soggezione, sottomissione, inferiorità, ecc., tale e quale si potrebbe re-agire nel team, sia se ci ritrova nella posizione di collaboratore sia in quella di capo.
Se un leader ha consapevolezza di tutto quello che può condizionare, della propria e delle altrui storie passate, nel qui ed ora delle relazioni nel team, potrà comprendere cosa caratterizza un disagio organizzativo, come una situazione di conflittualità, piuttosto che resistenze agite nei rallentamenti produttivi, nell’assenteismo ripetuto o nell’accogliere novità, solo per citare alcune difficoltà che possono incontrarsi con i propri collaboratori.
L’intimità e l’autenticità che derivano dalla consapevolezza generano rispetto per la diversità, accogliendo i comportamenti altrui non come persecutorii, consapevoli che ognuno ha una sua storia che, in parte, lo determina. Conoscere e comprendere permette al leader di non prendere sul personale, ovvero rivolti contro la sua figura, i comportamenti reattivi dei collaboratori, ma considerarli come proposte collusive (dal lat. cum-ludĕre= giocare insieme), un “gioco” la cui natura è ignota ai partecipanti, per operare uno sviluppo che abbia ricadute positive tanto nella qualità delle relazioni umane, quanto nella produttività.
La teoria dei bisogni di McClelland, per valutare la motivazione lavorativa, può essere d’aiuto per comprendere il parallelo tra le dinamiche che possono stabilirsi all’interno di un team e quelle apprese in famiglia, secondo le tre seguenti classiche declinazioni.
A. AFFILIAZIONE
I collaboratori trattano il capo con accondiscendenza, ricercando le sue gratificazioni, chiedendogli di essere diretti, “come se” fossero dei bambini che eseguono, affascinati da una figura onnipotente dalla quale sono fortemente dipendenti. Se il leader ha un corrispondente bisogno di riconoscimento positivo, la collusione che ne deriva è quella di un gruppo governato dal bisogno di affiliazione, con forti gratificazioni affettive tra i componenti, ma scarsa indipendenza e responsabilizzazione dei singoli, tutto è accentrato sul leader.
B. POTERE
Quando le dinamiche della squadra sono caratterizzate da scontro e contestazione continua è probabile che i collaboratori agiscano motivati dal bisogno di potere, come se fossero degli adolescenti ribelli e riottosi che mettono continuamente in discussione l’autorità del capo. Più il leader esercita il suo bisogno di controllare e di influenzare i collaboratori, più riceve i loro attacchi, in un escalation simmetrica che ha come obiettivo la ricerca dell’autonomia di questi ultimi e sottrae risorse ai fini organizzativi/produttivi.
C. RIUSCITA
Nei team governati dal bisogno di riuscita le relazioni sono funzionali al raggiungimento dell’obiettivo connesso al lavoro svolto. I capo ed i collaboratori condividono il medesimo bisogno di affermarsi, in maniera complementare. La collaborazione è efficace perché è improntata alla reciprocità dello scambio tra il leader e un gruppo di giovani adulti, tutti orientati al raggiungimento di obiettivi ambiziosi, nella condizione di attuare strategie innovative e creative.
Il passaggio dal bisogno affiliativo al quello della riuscita, per il raggiungimento del successo, dipende dal grado di consapevolezza del leader delle sue emozioni/motivazioni in modo da avere una comunicazione chiara e assertiva per fornire ascolto e supporto per raggiungere alte prestazioni, originali e di qualità.
3.c – Coltivare le relazioni. Alexander Kjerulf, informatico della University of Southern Denmark, formatore per Hilton, Microsoft, IKEA, Shell, HP e IBM, nel suo testo “Leading With Happiness” afferma che le aziende felici sono più profittevoli e innovative, attraggono i migliori talenti e hanno un tasso più basso di assenteismo e turnover. Quello che maggiormente rende felici le persone al lavoro sono le relazioni umane. Le gratifiche hanno un peso meno preponderante rispetto ai buoni rapporti.
Coltivare relazioni non corrisponde a parlare solo con chi ci sta simpatico, significa anche frequentare riunioni noiose, sacrificare davanti al pc minuti preziosi del nostro tempo libero, inseguire persone non sempre ben disposte, fare il primo passo per ricucire rapporti deteriorati, prendere porte in faccia, mantenere le relazioni malgrado non ci si senta valorizzati. Ci vuole metodo e fatica, anche per i caratteri più solari e socievoli.
È possibile imparare a convivere con la situazione di incertezza che accompagna la pandemia da coronavirus, continuando a pianificare le attività lavorative e a mantenere la vigilanza, facendolo con pazienza, compassione e rinforzando il senso di altruismo. John Drury, docente di psicologia sociale all’Università del Sussex, UK, e ricercatore nell’area dei comportamenti collettivi, riporta che “la cooperazione che si verifica in molte emergenze e catastrofi è spiegabile in termini di processi di identità sociale, che riflettono le relazioni preesistenti oppure il nuovo senso di appartenenza derivante dall’esperienza comune”. Coloro che assolvono alla gestione di squadre di lavoro devono essere, quindi, consapevoli dell’uso della comunicazione per costruire un’identità condivisa e della necessità di aiutare la comunità a collaborare, fornendo ad essa continuo supporto.
3.d – “Per me sei importante!”. I team leader possono sostenere i loro collaboratori in questo momento difficile manifestando interesse, chiedendo come stanno e come possono aiutarli, provvedendo a fornire ciò di cui hanno bisogno, mettendosi al servizio del gruppo per aiutarli a crescere e fornendo un supporto tangibile ed emotivo. Questa disposizione interna, l’intenzione di essere attenti, permette al leader di mantenere la distanza dai magneti dell’insoddisfazione, dell’impotenza, della rabbia e della frustrazione, aumentando il senso di autoefficacia percepita. Piuttosto che dare importanza al malessere o alle critiche dei membri della squadra, il capo si assume la piena responsabilità della conduzione delle decisioni, riconoscendosi come causa degli eventi – il locus of control è interno – avvertendo la convinzione di essere capace di affrontare con successo delle attività specifiche, invece che come passivo effetto di ciò che gli accade.
Si supportano i collaboratori monitorando regolarmente il loro benessere, garantendo un’efficiente comunicazione, grazie a riunioni brevi e regolari, aggiornando tempestivamente riguardo eventuali novità da adottare, motivandole per quanto possibile. Questo riguardo aiuta i membri del gruppo ad esprimere le proprie preoccupazioni e a porre domande, incoraggiando il sostegno reciproco e mitigando le preoccupazioni e l’incertezza.
Le ricerche dimostrano che la self-efficacy del leader, che lo induce a partecipare all’impatto degli stressor con la propria equipe, aiuta a mantenere gli standard del lavoro svolto, creando, con questa attenzione, un maggior coinvolgimento che stimola i collaboratori ad incrementare l’impegno al lavoro. Occorre tenere conto che un adeguato supporto dovrebbe tempestivamente rispondere soprattutto ai bisogni di chi si trovava già in situazioni personali di difficoltà.
3.e – Lavorare in solitudine. Attenzione particolare andrà riservata a tutti coloro che rimangono a casa, nel cosiddetto smart working, perché, separati fisicamente dai colleghi e dal consueto posto di lavoro, si ritrovano soli con i loro computer, connettendosi con quelli che avevano l’abitudine di incontrare con regolarità. Si tratta di un lavoro da remoto coatto, contro la loro volontà, dettato dall’emergenza COVID-19. Molti possono sentirsi persi dovendo ricorrere ogni volta ad un terminale invece del contatto diretto, recandosi nell’ufficio del collega, con la naturale riduzione di informazioni presenti in una videoconferenza, tanto che a fine giornata il sentimento sperimentato è quello di spossatezza rispetto alle aumentate riunioni.
L’esplosione senza precedenti dell’uso delle videoconferenze di fatto ha lanciato un esperimento sociale non ufficiale, mostrando a livello globale che le interazioni virtuali possono risultare estremamente difficili per il cervello. A differenza della conversazione diretta, quella mediata dalla tecnologia non permette di accedere ad una componente fondamentale della comunicazione, quella del linguaggio non verbale. Pertanto il cervello finisce per prestare un’eccessiva attenzione alle parole, non disponendo del significato aggiuntivo fornito da segnali come i gesti, il tono di voce, o la posizione del corpo. Consumiamo molta energia e ci stanchiamo di più, tanto che, riferendosi ad uno dei software più usati per organizzare videoconferenze, si parla sempre più spesso di “Zoom fatigue”. Lo psichiatra Gianpiero Petriglieri, docente dei comportamenti organizzativi presso l’INSEAD (prestigiosa business school francese), al proposito ha scritto che “le nostre menti sono insieme mentre i nostri corpi sentono che non lo siamo. Questa dissonanza, che provoca sentimenti contrastanti, è estenuante”. Il disagio nei partecipanti ad una videoconferenza è accentuato dai silenzi virtuali, la cui interpretazione può essere ambigua, inoltre, sentendo che tutti ci guardano, la pressione sociale, legata all’effetto palcoscenico, può inibire i soggetti più introversi. A peggiorare la situazione può intervenire anche la qualità scadente di un video o il ritardo nell’ascolto della voce, che può essere percepito come disattenzione.
Per questi motivi occorre limitare le videoconferenze a quelle necessarie, lasciando facoltativa l’attivazione della videocamera e alternando dei periodi di sosta tra una riunione da remoto e la successiva, stabilendo dei veri e propri confini che ci permettano di “mettere da parte un’identità” quella lavorativa, ad esempio, per poi passare a quella privata, anche grazie ad un riavvicinamento alla realtà del corpo, attraverso qualche esercizio di Stretching, Yoga o la Meditazione di Consapevolezza.
4. Empatia. L’empatia è un tentativo attivo di comprendere la prospettiva degli altri e le loro emozioni, in pratica come percepiscono e come vivono la loro realtà; è un’abilità sociale caratterizzata da processi cognitivi e da un’attivazione emozionale nel soggetto che la prova. Nel lavoro di squadra la tendenza all’individualismo e all’atteggiamento competitivo inteso come tendenza a superare l’altro per ottenere dei vantaggi, più che incrementare la motivazione a produrre ha fatto passare in secondo piano l’importanza dell’empatia, tacciata alla stregua del buonismo
4.a – Un antidoto all’egocentrismo. Essere interconnessi e condividere amplia la capacità di comprendere lo stato d’animo dell’interlocutore; non si tratta solo di sentire le emozioni, ma anche immaginare le cose dal punto di vista dell’altro. Se vogliamo crescere, “mettersi nei panni dell’altro” è un’abilità cruciale per noi e le nostre relazioni, permettendoci di ampliare la nostra percezione avvalendoci di esperienze diverse dalla nostra. L’empatia porta con sé un enorme vantaggio sociale; riconoscere le emozioni degli altri e avere la certezza che gli altri riconoscano le nostre, facilita le interazioni tra gli esseri umani e la cooperazione che ha permesso di stabilirci in cima alla piramide alimentare e di sviluppare conoscenze e tecnologie. Martha Nussbaum, docente di filosofia all’Università di Chicago, tra le caratteristiche fondamentali del buon cittadino democratico elenca la capacità di pensare al bene comune e di riuscire a sviluppare l’empatia.
La ricerche delle neuroscienze hanno evidenziato che chi difetta della competenza empatica ha un deficit nell’attivazione della regione del cervello corrispondente al lobo parietale; piuttosto che osservare e riconoscere le emozioni altrui, egli “proietta” le proprie emozioni sull’altro, caratteristica tipica della personalità egocentrica. C’è da tener presente che la nostra empatia viene frenata o inibita completamente – determinando giudizi scorretti o imprecisi – in presenza di specifiche condizioni ambientali, come ad esempio quando siamo costretti a prendere decisioni rapide o quando viviamo situazioni di stress duraturo. Di fatto promuovere atteggiamenti orientati a riconoscere e a dare importanza alle emozioni sperimentate nel team, favorisce la creazione ed il mantenimento di buone relazioni, essendo, l’abilità sociale dell’empatia, correlata positivamente con atteggiamenti di supporto emotivo e negativamente alle condotte aggressive.
4.b – Si può “allenare”. La notizia positiva è che la disposizione a questa capacità che ci permette di riconoscere l’Altro-da-noi, può essere sviluppata grazie alla consapevolezza. Sapere come riconoscere le emozioni degli altri, ci dà dei parametri per riconoscere le nostre e migliora anche le scelte morali, infatti se abbiamo provato dolore sarà più difficile desiderare di infliggerlo agli altri e se abbiamo provato gioia, sarà più facile gioire della felicità altrui. L’empatia” non è il prodotto di una tecnica, come il semplice rispecchiamento o l’ascolto attivo, ma del profondo rispetto per l’esperienza altrui, soprattutto quando questa è completamente diversa dalla nostra. Per vivere empaticamente è necessario sposare un atteggiamento mentale consapevole, grazie al quale si “sospende il proprio io” e si dà voce agli altri, per poi ritornare in se stessi con una visione differente. Possiamo, in questo senso, allenare l’empatia provando curiosità verso gli altri, osservandoli e cercando di comprendere il loro stato emotivo, che giornata stanno passando, cosa stanno provando. Un altro esercizio è quello di imparare ad ascoltare senza pregiudizi l’altro, spesso, invece, durante le conversazioni abbiamo la risposta pronta prima ancora che l’altro abbia finito la frase, arrivando allo scontro con battaglie verbali. Generalmente questo accade perché abbiamo poco tempo e viviamo il rallentamento, legato alla comprensione del nostro interlocutore, come un disturbo, piuttosto che un arricchimento connesso allo scambio con l’altro, tentando di comprendere perché quella persona la pensa diversamente da noi, permettendoci di espandere e completare la nostra esperienza. Aprirsi alle esperienze degli altri è come leggere libri, avere più informazioni su esperienze comuni e vederle in maniera diversa. Possiamo ampliare i nostri confini di “giudizio” e limitare il “pregiudizio”, ovvero appiccicare delle nostre etichette sull’Altro, per una conoscenza più saggia e più umana e per sentirci maggiormente in connessione con gli altri fornendo ed ottenendo il supporto sociale di cui tutti abbiamo bisogno.
4.c – Compassione
Abbi compassione per tutti quelli che incontri,
Anche se loro non vogliono. Ciò che sembra arroganza,
cattive maniere o cinismo è sempre un segno
di cose che nessun orecchio ha udito, nessun occhio ha visto.
Non sai quali guerre stanno accadendo
Laggiù dove lo spirito incontra le ossa
“Compassion” (1997), Miller Williams
Nelle lingue derivate dal latino la parola compassione significa partecipare al dolore altrui, non guardando con indifferenza la sofferenza che prova l’altro. È per questo che, generalmente, la parola compassione ispira diffidenza, come se si trattasse di un sentimento mediocre.
Il primo requisito cognitivo della compassione è la credenza, o valutazione, che la sofferenza sia seria e non banale. Il secondo è la credenza che la persona non meriti la sofferenza stessa, il terzo è la credenza che le possibilità della persona che prova l’emozione siano analoghe a quelle di chi soffre, M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, 2004
Attualmente, pur essendo tutti in comunicazione attraverso i social media, evitiamo di interessarci all’Altro in maniera profonda; è esperienza comune che il semplice chiedere “come stai?” non corrisponda ad un autentico interessamento, cordiale, verso chi abbiamo di fronte, ma un modo civile di iniziare una conversazione. È come se preferissimo ignorare, non avvicinandoci troppo ai sentimenti del nostro interlocutore, probabilmente per non interrogarci su eventuali modi alternativi, nuovi e non familiari, rispetto alla nostra comfort zone, facendo economia di pensiero. Le relazioni, i legami umani, richiedono impegno e una rinuncia faticosa all’indifferenza che ci espone tanto alle fragilità dell’altro quanto alle proprie, è forse per questo che oggi sembrano preferite le connessioni virtuali, “liquidabili” con un click.
4.d – Interdipendenza e rispetto. L’atteggiamento collaborativo, la competenza sociale oggi definita partnership, e non la dimensione del cervello, l’uso degli attrezzi né tantomeno l’aggressività, caratterizzò lo sviluppo verso la nostra umanizzazione, rispetto alla originaria condizione animale. Albert Bandura, psicologo canadese docente alla Stanford University e presidente dell’American Psycological Association, teorizzando la socialità dell’acquisizione delle conoscenze, ha identificato nel modeling quel processo di apprendimento che si attiva quando il comportamento di un individuo che osserva si modifica in funzione delle condotte di un altro individuo, che ha la funzione di modello. Cooperare in un team in cui è attribuito valore all’interdipendenza tra i suoi componenti, al rapporto di intima connessione per raggiungere il mutuo beneficio – rispetto alla competizione dove è premiato l’individualismo – fornisce una concreta possibilità di contenere il rischio della assoluta soggettività che prevale quando ci focalizziamo sui pronomi io e tu. Fra il “me” ed il “te” – interessandosi al sentimento del “noi”, capace di includere senza inglobare il singolo – si ha la possibilità di accedere ad una percezione della realtà più ampia di quella individuale, racchiudendo, ogni interazione, la possibilità di un dialogo intimo e autentico con noi stessi.
Per passare dall’individuo al gruppo ci può aiutare riflettere sulla interpretazione egocentrica degli accadimenti associandola ad un “isola”, che è divisa e separata dalla terraferma, simbolo di stabilità, forza e certezza. Dall’altra parte abbiamo un approccio orientato ad un rapporto aperto all’Altro, dinamico, di parità e di scambio, che determina una relazione di interdipendenza, ove il personale “punto di vista” può arricchirsi interessandosi a quello dell’Altro. L’associazione, in questo secondo caso, è con un’arcipelago, un aggruppamento di terre circondate dall’acqua, non più isolate, ma solidali.
L’apertura al nuovo, al diverso-da-noi, l’attitudine all’inclusione e al collaborare possono fornire un grande aiuto per superare il bisogno di metterci rigidamente sulla difensiva in reazione alle incertezze e alle ansie. Riuscire ad integrare persone differenti nel gruppo di lavoro per esperienze maturate, competenze acquisite, età, sesso e background culturale è un valore aggiunto per ottenere prestazioni migliori rispetto ad una squadra con membri simili. Affinché in un team le differenti individualità convergano verso un agire comune, condiviso e partecipato, occorre che dai singoli venga sospeso il giudizio nei confronti delle incomprensioni e degli attriti che, inevitabilmente, possono crearsi. Questo decentramento può avvenire se assumiamo che quando non riusciamo a sintonizzarci con l’altro non significa che l’altrui banda è sbagliata, ma che è diversa dalla nostra; esserne consapevoli può permettere di non sentirci esclusi. Evitando di polarizzarsi sulle categorie giusto/sbagliato o ragione/torto possiamo praticare delle microregolazioni vicendevoli, attribuendo valore alla reciprocità e stabilendo relazioni fondate, oltreché sull’interdipendenza, sul rispetto di chi è diverso da noi. La parola rispetto deriva il suo etimo da “respicere” (in lat. guardare due volte, di nuovo), ovvero contemplare le divergenze ed i contrasti, riconsiderandole con attenzione. Per rispettare il pensiero altrui dobbiamo prima di tutto ascoltarlo, quindi riformulare il proprio punto di vista, che, a questo punto, sarà la risultante di quanto si riteneva prima di sentire l’opinione altrui e dell’aver “guardato indietro” il proprio modo di vedere a seguito dell’intervento dell’altro.
5. MindfulOrganizing. L’organizzazione lavorativa consapevole interviene sui processi relazionali collettivi per lo sviluppo di una cultura improntata alla promozione del benessere del personale, a qualsiasi livello, con ricadute positive sulle risorse personali individuali, sulle dinamiche interpersonali e sulla produttività. La Mindful Organizing è un attributo stabile e duraturo di un impresa che rientra negli interventi di prevenzione dello Stress Management, centrati sulla persona piuttosto che sull’organizzazione. Le proposte interessano sia il singolo lavoratore sia i gruppi per prepararsi ad affrontare le situazioni legate ai cambiamenti lavorativi o a situazioni contingenti traumatiche, come fenomeni sismici, pandemie o, in generale, eventi che producono una interruzione imprevista rispetto alla vita precedente.
Le diverse azioni applicabili riguardano tecniche e programmi utili ai dipendenti di un’organizzazione lavorativa per gestire efficacemente lo stress, riconoscendolo e adottando azioni per ripristinare un efficace livello di attivazione psicofisiologica. L’insieme di queste iniziative, andranno pertanto a far parte di un vero e proprio welfare aziendale, un antidoto per intervenire, sempre presi dal fare, per non dimenticarci di “chi fa il fare”, cioè delle risorse umane.
È riconosciuto che un’accresciuta efficienza degli standard qualitativi personali, tanto nei dirigenti quanto nei dipendenti, può concretizzarsi solo se gli scopi dell’Azienda riescono a coincidere con quelli dell’individuo e viceversa. Pertanto una leadership che adotta un atteggiamento propenso alla verifica dei processi del lavoro di squadra, investigando in profondità il ventaglio delle opzioni disponibili, integrando questo livello di analisi all’interno del proprio modus operandi, incoraggia una cultura che ha come obiettivo la costruzione di un Mindful workplace, passando per le singole persone. Nel luogo di lavoro consapevole l’attenzione all’intelligenza emotiva riduce le reattività tra collaboratori, gli scontri egoici, le contrapposizioni che danno luogo a conflitti che, oltre a rendere tossica la vita delle persone, comportano costi elevati anche in senso economico.
5.a – La gentilezza al lavoro. Sii gentile, ogni persona che incontri sta combattendo una dura battaglia di cui non sai nulla, Anonimo
Promuovere la gentilezza al lavoro significa dotarsi di un codice di comportamento che porta a riconoscere il valore del collega, del capo, dei collaboratori come persona e non solo come lavoratore che è lì per generare profitto e risultato. Accogliendo con gentilezza la diversità dell’altro possiamo trovare la relazione un luogo confortevole e rassicurante nel quale so-stare, sviluppando una profittevole competenza relazionale. La gentilezza aumenta la produttività aziendale perché permette di creare una cultura di benessere collettivo e non di tipo individualista. L’unione della squadra, un clima di lavoro positivo, valori condivisi e apporti personali riconosciuti creano un driver potente per qualsiasi settore aziendale. Le buone relazioni che seguono ad un clima aziendale gentile permettono lo sviluppo di una efficace collaborazione. Soprattutto in situazioni di stress le persone possono essere aiutate grazie allo sviluppo dell’altruismo e della cooperazione. Avvertire che si sta contribuendo a realizzare qualcosa di importante, aiutando gli altri, può dare grande soddisfazione che compensa le tensioni legate al contagio e al distanziamento di sicurezza richiesto in questo periodo, limitando il senso di impotenza e di solitudine grazie alla condivisione e rinforzando la fiducia nella possibilità di non abbattersi, la resilienza
La resilienza può guidare al successo, perché allena il cervello a trasformare le difficoltà in opportunità e soluzioni. Per trasformare un problema in una soluzione c’è bisogno della creatività, la capacità di stravolgere il ragionamento abituale, di mettere in discussione ciò che sappiamo già, per trovare nuove soluzioni, spingendoci oltre l’abituale zona di comfort, “out of the box”. La Mindfulness, grazie allo sviluppo dei processi attentivi, della concentrazione e della memorizzazione favorisce la consapevolezza degli schemi comportamentali automatici che mettiamo in atto senza rendercene conto, condizioni che rendono difficile l’apertura al nuovo, rimanendo “attaccati” al familiare, ovvero all’“abbiamo sempre fatto così!”
5.b – Leader illuminati. Si tratta di persone consapevoli, presenti, capaci di ascolto, ricettivi e aperti al cambiamento, meno reattivi e intrappolati in reazioni emotive automatiche e inconsapevoli, come la paura del nuovo o l’autoreferenzialità. Lavorare con un capo gentile apporta un valore aggiunto nel team perché contribuisce a creare un clima di lavoro più sereno e, di conseguenza, permette di ottenere il massimo dalle persone, che si sentono più responsabilizzate e quindi più portate a osare ed innovare. Per questo motivo la leadership gentile può fare la differenza.
I seguenti cinque punti permettono al leader di autoverificare il proprio grado di gentilezza con i collaboratori
1. Riconosce quel che di positivo l’altro compie e dedica dei momenti di qualità nel dare feedback per far crescere i propri collaboratori
2. Rende attivi i propri dipendenti chiedendo contributi, lasciandogli la possibilità di esprimersi pienamente.
3. Resta focalizzato sulla relazione ed evita distrazioni o dispersioni, ad esempio evitando, durante le riunioni, di usare il cellulare o il pc mentre l’altro parla.
4. Gestisce efficacemente il tempo con la tutela degli spazi di vita privata di tutto il gruppo, non assegnando un compito, non fissando riunioni o aspettando risposte alle e-mail inviate oltre l’orario del lavoro.
5. È capace di mettersi in discussione con un approccio costruttivo, aperto e orientato alla reciprocità.
5.c – Interventi attuabili. Le varie azioni che possono essere intraprese in un approccio di welfare ispirato alla Mindful Organizing (in un Azienda, in un Istituto Scolastico o nel Privato Sociale), debbono sapientemente intrecciare tutti i livelli organizzativi.
📍Consulenza psicologica. Per appuntamento, in forma discreta ed in luogo riservato la presenza settimanale di uno psicologo determina uno spazio, all’interno del luogo del lavoro per trattare difficoltà personali o relazionali che possono determinare un impatto negativo nell’approccio al lavoro. Sapere che tutte le figure professionali si avvalgono del confronto con uno specialista nel trattare le emozioni e le sue implicazioni relazionali, permette di poter chiedere aiuto senza temere di venir stigmatizzato dai colleghi come fragile o, peggio, malato.
📍Riduzione dello stress con la Mindfulness (MBSR). Il training di gruppo “Praticare la gentilezza (con se stessi e con gli altri)”, ha la durata di 9 settimane con 8 incontri a cadenza settimanale di 2,5, ore, più una giornata intensiva di 8 ore, per un totale di 28 ore di formazione in presenza. Tra un incontro ed il successivo ai partecipanti viene chiesto di praticare quotidianamente quanto appreso e di applicare la presenza mentale nella vita di tutti i giorni, attraverso compiti specifici assegnati. Si tratta di un training con il quale si apprende a ridurre l’impatto dello stress attraverso la Mindfulness, termine con il quale si designa quell’attitudine mentale utile a coltivare, intenzionalmente, una piena focalizzazione sull’esperienza del momento presente, in modo non giudicante. È un approccio riflessivo della mente che osserva se stessa, rimanendo distanziata dai suoi contenuti (sensazioni fisiche, vissuti emotivi e pensieri) e non fusa con essi. È possibile migliorare il tono dell’umore e la capacità di avere risposte adattivamente funzionali grazie alla gestione efficiente dell’attenzione, della memoria e della progettualità; l’equilibrio della mente e del corpo che ne deriva produce la riduzione dell’ansia, del rimuginio mentale e delle reazioni impulsive allo stress
Grazie alla meditazione di consapevolezza si interviene nel modo in cui si percepisce il proprio ruolo nel contesto professionale, nella relazione con i colleghi e sul significato stesso del lavoro. La forza infatti dell’esperienza meditativa si manifesta quando riusciamo a spostarci progressivamente dall’attenzione centrata su di sé all’empatia verso l’altro. Lo “stato meditativo” non è mai una condizione passiva, in realtà in tale pratica l’individuo impara in modo attivo e intenzionale a fermarsi e ad aprire spazi nuovi nella propria vita, per verificare la validità di ciò che sta facendo e capire qual è la direzione più adattiva. La partecipazione combinata di operai, impiegati, team leader e manager in questa attività di gruppo poi, può generare un confronto ricco di scambi con l’avvio di un atteggiamento di reciproca gentilezza che si dissemina durante le quotidiane mansioni professionali.
📍Meditazione di Consapevolezza e MindfulYoga. Attivazione di uno spazio settimanale di novanta minuti, dedicato alla presenza mentale e alla consapevolezza al quale i dipendenti possono partecipare, previo appuntamento, per mantenere un’esperienza di pratica in gruppo in cui condividere anche le esperienze vissute attinenti la Mindfulness
“Ognuno protegge tutti”
Sarebbe bello che si diffondesse nuovamente questa cultura del proteggere il tuo prossimo, come da piccoli ci emozionavamo quando vedevamo i Tre moschettieri incoraggiarsi con il motto: “Tutti per uno, uno per tutti”.
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