ATTACCAMENTO E AVVERSIONE

ATTACCAMENTO E AVVERSIONE

10 Marzo 2025 0 di Roberto Torresi

Ormai dipendeva da quel luogo, ci si era attaccata con l’ostinazione con cui ci si attacca soltanto alle cose che fanno male (“La solitudine dei numeri primi”, P. Giordano).

La citazione di uno dei romanzi di maggior successo degli ultimi anni aiuta a comprendere la difficoltà che abbiamo, di default, a “lasciare andare”, anche quando una parte di noi sa che l’attaccamento ci farà soffrire, divenendo dipendenti da qualcosa o da qualcuno.

Ci avventuriamo fuori dalla comfort zone solo se ci autorizziamo a sperimentare la modalità alternativa al fare, quella dell’essere, osservandoci per ciò che siamo, indipendentemente dai risultati conseguiti con le nostre scelte e con i nostri comportamenti.

Con la Mindfulness possiamo rallentare ed osservare gli accadimenti, tanto quelli negativi quanto quelli positivi, slegandoci dalle consuete modalità automatiche e involontarie, che tentano di allontanare lo spiacevole e trattenere il piacevole, per stare con tutto quello che c’è, gustando la libertà da qualunque condizionamento esterno.

Essere “presenti” riduce le reazioni, facendoci rispondere agli eventi che incontriamo nel quotidiano, trasformando l’ostinazione in determinazione e perseveranza.

Grazie alla consapevolezza smettiamo di praticare l’attaccamento o l’avversione, prendendo le distanze dal “pilota automatico” attivato dal timore di essere criticati e giudicarci come inadeguati.

  1. Mindfulness o Mindlesness?

La differenza tra essere presente ed essere assente dalla propria vita può essere compresa con il racconto indù nel quale un pesce andò un giorno da un pesce regina e gli domandò: Sento sempre parlare del mare, ma che cos’è questo mare? Dov’è? Il pesce regina spiegò: Tu vivi, ti sposti e hai la tua esistenza nel mare. Il mare è dentro di te e fuori di te, e tu sei fatto di mare, e finirai nel mare. Il mare ti circonda come il tuo proprio essere. (La porta senza porta, Mumon).

La Mindfulness è la comprensione esperienziale di ciò che si conosce, di ciò che sentiamo nel corpo, non è conoscenza concettuale, ovvero ciò che pensiamo con la mente. Essere consapevoli vuol dire essere presenti in ognuno dei diversi contesti della vita quotidiana in cui ci si trova immersi, momento dopo momento.

Immaginiamoci come un germoglio gettato dall’albero da cui proveniamo. I requisiti per divenire prima fiore e poi frutto maturo sono le condizioni climatiche propizie che incontreremo, le cure che riceveremo ed il tempo che avremo la pazienza di attendere.

2. L’attenzione che trasforma 

Nelle scegliere il titolo di questo incontro ho tenuto conto della frase di Tich Nath Hanh “Il regalo più prezioso che possiamo fare a qualcuno è la nostra attenzione” per tributare la giusta rilevanza a questa fondamentale funzione cognitiva che ha un importante impatto nel nostro universo affettivo.

Durante il primo anno, ero assai nervoso quando mi sedevo a meditare: mi facevano male la schiena, il torace, le gambe… A dire il vero, avevo dolori quasi dappertutto. Ben presto tuttavia mi sono reso conto che non c’era nemmeno un istante in cui non mi dolesse una qualche parte del corpo; era solo che quando mi sedevo a meditare diventavo cosciente di questo dolore. Ho preso allora l’abitudine di formularmi alcune domande come: «cosa mi fa male?», «come mi fa male?». E, mentre me lo chiedevo e tentavo di rispondermi, il dolore scompariva o, semplicemente, si spostava altrove. Non ci ho messo molto a trarre da ciò una conclusione: la pura osservazione è trasformatrice […], non c’è arma più efficace dell’attenzione. (“Biografia del silenzio” di Pablo d’Ors, scrittore e presbitero spagnolo)

La nostra attenzione non è come un palloncino che si può espandere per inglobare più cose per volta, ma può essere paragonata piuttosto a un sottile tubo, che può condurre un liquido in un’unica direzione: anziché suddividerla fra due attività, oscilliamo con rapidità tra le due, un passaggio che comporta comunque un indebolimento rispetto alla concentrazione piena. (“Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici”, D. Goleman)

3. L’impermanenza

L’impermanenza insieme alla sofferenza e all’insoddisfacibilità connaturata alle cose mondane, è uno dei tre aspetti fondamentali dell’esistenza nella dottrina canonica del buddhismo. Si tratta di un concetto filosofico utilizzato soprattutto nelle filosofie orientali, anche se non mancano riferimenti in quella occidentale. Eraclito sosteneva che non possiamo bagnarci due volte nello stesso fiume, per Voltaire non ci sono estreme delizie, né estremi tormenti, che possano durare tutta la vita: il supremo bene e il supremo male sono chimere, mentre De Andrè canta che “come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno come le rose”.

L’impermanenza è un concetto centrale nella pratica della meditazione di consapevolezza, che ci invita a riconoscere la natura transitoria di tutte le cose.

Nulla è permanente: ogni cosa, dalle emozioni agli eventi della vita, cambia continuamente. Tutto è soggetto a nascita, trasformazione e cessazione.

Questa verità si applica non solo alle esperienze piacevoli, che non possono durare per sempre, ma anche a quelle dolorose, che, in virtù della loro natura, sono destinate a terminare.

La consapevolezza dell’impermanenza ci aiuta a non identificarci completamente con i nostri stati d’animo o con i nostri pensieri, rendendoci più liberi. Infatti quando comprendiamo che tutto è impermanente, diventiamo meno inclini ad aggrapparci ai momenti piacevoli, l’attaccamento e meno reattivi verso quelli spiacevoli, l’avversione, sapendo che entrambi sono destinati a passare.

Nella Mindfulness, l’impermanenza è vista non come una fonte di tristezza o di rassegnazione, ma come una guida per vivere con maggiore profondità, equilibrio e consapevolezza nel qui e ora.

Quando ero un giovane monaco mi hanno insegnato che le sofferenze più grandi erano la nascita, la malattia, la vecchiaia, la morte, i sogni non realizzati, la separazione dalle persone care e il contatto con coloro che disprezziamo. Ma la vera sofferenza del genere umano sta nel modo in cui guardiamo la realtà. Guarda, e vedrai che la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte, le speranze non realizzate, la separazione dalle persone care, il contatto con coloro che disprezziamo sono anche meraviglie in sé. Sono tutti aspetti preziosi dell’esistenza. Senza di loro, l’esistenza non sarebbe possibile. L’importante è saper cavalcare le onde dell’impermanenza, sorridendo come chi sa di non essere mai nato e non morirà mai (Thích Nhất Hạnh)

4. L’Attaccamento

L’attaccamento è la tendenza ad aggrapparsi a persone, cose ed esperienze, spesso con l’aspettativa che ci diano felicità, sicurezza o stabilità. Questo atteggiamento può generare una serie di emozioni dolorose come la paura di perdere ciò a cui teniamo, la rabbia quando le cose non vanno come vorremmo e la tristezza quando, inevitabilmente, si verificano cambiamenti o perdite.

L’attaccamento genera un paradosso, credere che se una cosa ci fa stare bene, raddoppiarne la dose, ci farà stare benissimo. Invece in quel modo iniziamo a trasformare il piacere in dipendenza e compulsione.

La Mindfulness ci aiuta a diventare consapevoli di come i desideri che proviamo influiscano sul nostro benessere, maggiormente di quanto lo facciano gli “oggetti” desiderati.

Apprezzare il momento presente cosi com’è, imparando a godere di ciò che abbiamo, senza paura della perdita o della delusione, e accettando che l’impermanenza è una parte naturale della vita, determina una maggiore serenità e stabilità emotiva.

A volte, quando accade qualcosa, pensiamo che non sarebbe dovuto andare così. Per questo, quando muore una persona cara, perdiamo un lavoro, un amico o subiamo una sconfitta, ci sembra che tutto sia finito.

Ma non è vero!

È sempre un inizio…

Perché la grandezza non si raggiunge quando tutto va per il meglio, ma quando la vita ti mette alla prova, quando inciampi gravemente, quando sei deluso, quando la tristezza ti sopraffà. Solo trovandoti nella parte più profonda della valle puoi comprendere quanto sia magnifico trovarsi sulla cima di una montagna. (monologo estratto dal film “Gli intrighi del potere”, recitato da Anthony Hopkins interpretando il ruolo dell’ex presidente americano R. Nixon)

5. L’Avversione

L’avversione è una reazione emotiva caratterizzata da una forte opposizione o rifiuto verso una persona, un’esperienza o un’emozione che ci risulta sgradita o dolorosa. Spesso è accompagnata da tensione fisica e mentale e può manifestarsi in diverse situazioni, come nelle relazioni difficili, negli imprevisti quotidiani o nei momenti di insoddisfazione, determinando reazioni dolorose come ansia, stress, rabbia, frustrazione e, a lungo andare, logoramento fisico ed emotivo.

Con la presenza mentale, che possiamo sviluppare praticando la meditazione di consapevolezza, apprendiamo ad osservare i pensieri e le emozioni, senza giudicarli o volerli cambiare. Di fronte ad un evento o una relazione verso cui proviamo avversione, possiamo accogliere le sensazioni spiacevoli che avvertiamo nel corpo, permettendoci di osservarle senza reattività, creando una distanza mentale che riduce l’intensità della reazione istintuale.

Accogli l’avversione (poesia “creata” grazie all’intelligenza artificiale)

Un’ombra si alza nel cuore,

bruciante e tagliente come il vento.

Un no che si radica,

un muro che separa.

Avversione, ti riconosco,

ospite scomodo della mia mente.

Non ti scaccio, non ti nutro,

ti osservo, ti accolgo.

Nel corpo, la tensione.

Nella mente, la tempesta.

Ma sotto tutto, il respiro,

che silenzioso resta.

Ti vedo per ciò che sei:

un’onda che si infrange,

un fuoco che arde

e poi si spegne.

Non sei nemica,

sei solo un messaggio.

Mi insegni l’impermanenza,

mi mostri dove aggrappo la paura.

Con ogni respiro ti lascio andare,

non per fuga, ma per amore.

E nel tuo dissolversi

ritrovo spazio, ritrovo pace.

6. Ancora sull’Avversione

Cito il suggerimento del Dalai Lama “Non lasciare che il comportamento degli altri distrugga la tua pace interiore”, quale invito a lasciar andare ciò che di spiacevole quotidianamente possiamo incontrare, mantenendo radicamento e serenità.

“La Tazza di Tè”, antica storia giapponese

Un monaco andò dal suo maestro, turbato dalla rabbia e dall’avversione che sentiva verso un altro discepolo.

Con un’espressione di frustrazione disse:

“Maestro, non riesco a sopportarlo! Ogni sua parola e ogni sua azione mi irritano profondamente. Come posso liberarmi di questa avversione?”

Il maestro lo ascoltò con calma e poi gli disse:

“Prendi questa tazza di tè.”

Il monaco prese la tazza, e il maestro iniziò a versarvi il tè, ma non si fermò quando la tazza era piena. Continuò a versare, e il tè cominciò a traboccare.

“Maestro, basta! La tazza è piena, non può contenere altro!” esclamò il monaco.

Il maestro si fermò e lo guardò:

“Proprio come questa tazza, la tua mente è piena di giudizi, rabbia e avversione. Se vuoi trovare pace, prima devi svuotare la tua mente. Solo allora potrai accogliere la saggezza e la compassione.”

Il monaco comprese: la sua avversione non era causata dall’altro discepolo, ma dal suo stesso attaccamento alle emozioni e ai pensieri negativi.

Da quel giorno iniziò a praticare la consapevolezza, osservando la sua avversione senza alimentarla, fino a che la sua mente non divenne come una tazza vuota, pronta a ricevere serenità.

“… a volte possiamo sentirci soli, vuoti, isolati, come se fossimo una piccola barca che affronta una tempesta in mezzo all’oceano. Ci sentiamo male. Ma quando pratichiamo, la nostra percezione cambia: iniziamo a sentirci come se fossimo noi stessi l’oceano, e le emozioni fossero la barca. Questo è un cambiamento di prospettiva.

Quando la mente si calma, emerge un sentimento: ‘Oh… in realtà, siamo noi l’oceano, vasto e profondo, mentre le emozioni sono solo piccole barche’.

Nulla è cambiato tranne la prospettiva, e con essa cambiano le nostre sensazioni, mentre la nostra mente torna alla serenità e all’equilibrio naturale.” (estratto da Ajahn Jayasaro, monaco buddhista della tradizione della foresta, di origine britannica naturalizzato tailandese)

7. L’Equanimità

Possiamo lasciare che le cose siano così come sono in questo momento?

La parola equanimità significa animo imparziale, derivando dal latino aequus ed animus.

Si tratta di una disposizione del cuore ad approcciare gli accadimenti e le relazioni con equilibrio e serenità, applicabile nella vita quotidiana per promuovere stabilità emotiva.

È una qualità dell’essere che permette di affrontare le esperienze della vita senza essere sopraffatti dalle emozioni, tanto quelle piacevoli quanto quelle spiacevoli.

Non ha a che fare con l’indifferenza, ma è piuttosto uno stato mentale, per accogliere gli eventi così come sono, senza attaccamento verso il piacere né avversione contro il dolore.

Praticare l’equanimità significa rimanere stabili di fronte ai successi e agli insuccessi, riducendo le reazioni impulsive, con un atteggiamento di apertura e non giudizio; partecipando inoltre compassionevolmente alla sofferenza altrui, senza farci travolgere emotivamente.

Essere equanimi, piuttosto che reagire, crea lo spazio necessario per rispondere con equilibrio alle situazioni che interessano la nostra esistenza, permettendoci di mantenere uno stato di presenza stabile, grazie alla consapevolezza, anche in situazioni difficili.

Racconto popolare “Il Contadino e il Cavallo” per non giudicare frettolosamente gli eventi della vita che ci accadono: quello che sembra una disgrazia può rivelarsi una benedizione, e ciò che appare come una fortuna può portare difficoltà

C’era una volta un vecchio contadino che viveva in un piccolo villaggio. Un giorno il suo unico cavallo scappò. I vicini accorsero dicendo:

“Che disgrazia! Ora hai perso il tuo cavallo, come farai?”

Il contadino, con calma, rispose:

“Può darsi.”

Dopo qualche giorno, il cavallo tornò, portando con sè tre cavalli selvaggi. I vicini, stupiti, esclamarono:

“Che fortuna incredibile! Ora hai quattro cavalli!”

Il contadino sorrise leggermente e disse:

“Può darsi.”

Il giorno dopo, il figlio del contadino cercò di domare uno dei cavalli selvaggi, ma cadde e si ruppe una gamba. I vicini, addolorati, dissero:

“Che sfortuna! Ora tuo figlio è ferito!”

Il contadino, nuovamente con calma, rispose:

“Può darsi.”

Qualche settimana dopo, il re del paese dichiarò guerra e ordinò di arruolare tutti i giovani uomini. Ma il figlio del contadino, con la gamba rotta, non potè partire. I vicini, invidiosi, commentarono:

“Che fortuna! Tuo figlio è stato risparmiato!”

E, ancora una volta, il vecchio contadino disse semplicemente:

“Può darsi.”

8. Al di là del Bene e del Male

Tu sei il cielo. Tutto il resto è solo il tempo atmosferico (Pema Chödrön, monaca buddhista americana di tradizione tibetana).

La sofferenza inizia quando mentalmente date un nome o etichettate in qualche modo una situazione come indesiderabile o cattiva. Vi risentite per una situazione e spesso questo risentimento la personalizza e vi porta in un «me» reattivo.

Dare un nome ed etichettare sono abitudini, ma quest’abitudine può essere spezzata. Incominciate a metterlo in pratica con piccole cose, «senza definirle». Se perdete l’aereo, fate cadere una tazza che si rompe, o scivolate e cadete nel fango… potete evitare di definire l’esperienza come brutta o dolorosa? Potete immediatamente accettare l’«essere così com’è» di quel momento?

Definire qualcosa come cattiva, causa in voi una contrazione emozionale. Quando siete in grado di lasciarla essere, senza darle un nome, vi è improvvisamente disponibile un potere enorme.

La contrazione vi taglia fuori da quel potere, il potere della vita stessa. 

Essi mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. 

Andate al di là del bene e del male, evitando di etichettare mentalmente qualsiasi cosa come buona o cattiva. Quando andate al di là dell’abitudine di definire, il potere dell’universo si muove attraverso di voi. Quando siete in una relazione non reattiva con le esperienze, quello che prima avevate chiamato «cattivo» spesso si trasforma rapidamente, se non immediatamente, attraverso il potere della vita stessa. 

Osservate cosa accade quando non definite un’esperienza come «cattiva» ed invece permettete un’accettazione interiore, un «sì» interiore, e così la lasciate essere così com’è. 

Qualunque sia la vostra situazione di vita, come vi sentireste accettandola completamente così com’è – proprio Adesso? (“Parole dalla quiete”, Eckhart Tolle)

Lasciare significa: lasciare che per un po’ le cose seguano il loro corso, che si muovano liberamente senza il nostro intervento, finché la direzione del loro movimento non si mostri spontaneamente. Se rinunciamo a tentare di guidare le cose e quelle, muovendosi, si allontanano da noi, lasciamole andare. Molliamo la presa. Se le lasciamo andare per la loro strada, ci rendiamo liberi per qualcos’altro. Se ci stacchiamo da qualcosa che alla lunga rappresenta un peso piuttosto che un aiuto ad andare avanti, poi saremo pronti ad aprirci all’essenziale, a ciò che conta. (“Gli Ordini del Successo” di Bert Hellinger)