IL “POTERE” DELL’ACCETTAZIONE

IL “POTERE” DELL’ACCETTAZIONE

8 Febbraio 2020 2 di Roberto Torresi

Lottare o allontanarsi da eventi o persone che ci evocano dolore è sicuramente un comportamento adattivo e funzionale, ma non sempre le situazioni che ci provocano sofferenza sono “risolvibili”, come nel caso di un dissesto economico, un sisma, una separazione, una malattia o un lutto.

In questi casi accanirsi per evitare, soffocare o negare le sensazioni e gli stati d’animo dolorosi produce un effetto paradossale, alimentando la sofferenza connessa al senso di impotenza che ne consegue.

Accettando radicalmente gli accadimenti della vita ci permettiamo di accogliere anche ciò che non ci piace, modificando la modalità reattiva in favore di una contemplativa, non per rassegnarsi, ma per reperire le scelte più sagge in funzione del dolore che ci interessa.

Attraverso le pratiche di consapevolezza, possiamo “stare” con il dolore evocato dalla perdita – fisica o affettiva – piuttosto che “fare” per combatterla, quando non è possibile cambiare quella realtà.

Con questa strategia si abbandona il rammarico impotente, l’idea che il passato doveva andare in modo diverso, e i desideri onnipotenti, ovvero che il futuro potrà essere sempre programmato e controllato: due illusioni, peraltro molto onerose psichicamente.

Solo il momento presente è il luogo dove ogni cambiamento ha inizio, cominciando dall’accettazione di sé, della propria umanità, fragilità e vulnerabilità, grazie alla pazienza, alla comprensione e alla gentilezza con se stessi. Tollerando le imperfezioni ed i sensi di inadeguatezza, tenendo presente che anche lo stimolo più spiacevole è transitorio e ricordandosi che il dolore fa parte della condizione umana, accomunandoci agli altri, piuttosto che sentirci soli.

LA FIABA PER MPARARE AD AMARE

C’era una volta un re che aveva tre figli. Il primo era bello e molto popolare fra i sudditi. Al suo ventunesimo compleanno, il re costruì per lui un palazzo nel centro della città. Il secondo figlio era intelligente e anche lui era molto benvoluto. Quando compì ventuno anni il re costruì anche per lui un palazzo al centro della città. Il terzo figlio, che non era né bello né intelligente, era antipatico e poco amato. Quando compì ventuno anni, i consiglieri del re dissero: “Nel centro della città non c’è più posto. Costruite per vostro figlio un palazzo subito fuori dalla città, un palazzo solido. Potete mandare le vostre guardie per impedire che venga assalito dai briganti che vivono oltre le mura della città”. E il re costruì un palazzo in questo modo e mandò alcuni dei suoi soldati per proteggerlo. Dopo un anno, questo figlio inviò a suo padre un messaggio: “Non posso vivere qui. I briganti sono troppo forti”. Allora i consiglieri dissero al re: “Costruite un altro palazzo più grande e più solido a venti miglia dalla città e dai briganti. Con più soldati potrà resistere agli attacchi delle tribù nomadi di passaggio”. E il re costruì un palazzo come gli era stato consigliato e mandò cento soldati a proteggerlo. Dopo un  anno arrivò un altro messaggio dal figlio: “Non posso vivere qui. Le tribù sono troppo forti”. Allora i consiglieri del re dissero: “Costruite un castello, un grande castello a cento miglia da qui. Sarà abbastanza vasto da alloggiare cinquecento soldati e abbastanza solido da resistere agli attacchi delle popolazioni che vivono oltre confine”. E il re costruì questo castello e mandò cinquecento soldati a proteggerlo. Ma dopo un anno il figlio gli mandò un altro messaggio: “Padre, gli attacchi delle popolazioni confinanti sono troppo forti. Ci hanno assaliti due volte e, se ci sarà un terzo attacco, io temo per la mia vita e per quella dei vostri soldati”. E il re disse ai suoi consiglieri: “Mio figlio tornerà a casa e abiterà con me, nel palazzo reale. E’ meglio che io impari ad amare mio figlio piuttosto che consumare tutte le energie e tutte le risorse del mio regno per tenerlo lontano”.